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Studio misura effetti economici

In Italia, ictus e infarto hanno effetti a lungo termine sulla possibilità di proseguire la propria storia lavorativa e mantenere il proprio reddito. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari Venezia, Università di Torino, Università di Amsterdam e Dipartimento di Epidemiologia dell’Asl 3 di Torino hanno per la prima volta misurato questi effetti economici nel contesto italiano, riscontrando una riduzione della probabilità di lavorare del 10%, a cui si associa una corrispondente perdita reddituale. Emerge anche come le norme a difesa del lavoro possano offrire una sorta di ‘salvagente’ a chi subisce un brusco peggioramento di salute, facilitando la prosecuzione della propria storia lavorativa. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica Labour Economics.

Cosa accade dopo un ictus o un infarto? Il lavoratore può veder aumentare il proprio “costo fisso” di lavorare e essere indotto a uscire dal mercato del lavoro. Alcuni potrebbero desiderare di continuare a lavorare, ma riducendo le ore lavorate. Infine, ci sono persone che potrebbero desiderare di continuare a lavorare mantenendo lo stesso impegno orario. Dal punto di vista del datore di lavoro, le reazioni potrebbero puntare a riduzioni di orario, mancate progressioni retributive, o persino la dismissione del lavoratore. Lo studio analizza proprio le conseguenze economiche di due imprevedibili e fulminei shock di salute. “Purtroppo gli effetti degli shock di salute sulla vita lavorativa sono permanenti – spiega Francesca Zantomio, professoressa di Economia all’Università Ca’ Foscari Venezia e coautrice dello studio – nel contesto italiano è molto difficile per chi esce dal mercato del lavoro riuscire a rientrarci in un momento successivo. Inoltre, non c’è margine di aggiustamento delle ore lavorate, margine che permetterebbe di rimanere attivi ad una parte di soggetti che invece, ad orario invariato, faticano a continuare l’impiego preesistente. Perché il part-time volontario è molto poco diffuso. Né osserviamo reazioni di transizione ad altre forme di lavoro, o altri datori di lavoro”.

A livello di reddito ci sono strumenti di protezione, come la pensione di inabilità. “Non troviamo evidenza che aumenti la probabilità di smettere di lavorare e al contempo di non ricevere alcun sussidio – spiega Irene Simonetti, ricercatrice di Economia all’Università di Amsterdam e coautrice dello studio- né troviamo evidenza che gli operai (più a rischio di perdere la propria capacità reddituale) usino in maniera opportunistica strumenti di welfare, quando dotati di capacità lavorativa residua”.

“Infine – spiega Michele Belloni, professore di Economia all’Università degli Studi di Torino e coautore dello studio – i nostri risultati evidenziano come la normativa di protezione del lavoro in vigore fino al 2012 sia riuscita a favorire l’inclusione lavorativa di chi ha subito un peggioramento di salute”.

Lo studio si basa sui dati amministrativi relativi a lavoratori italiani tra il 1990 e il 2012, a cui sono agganciati dati ospedalieri che permettono di osservare le loro eventuali ospedalizzazioni non programmate e dovute a infarto o ictus. Dal 2012 sono entrate in vigore riforme normative di alleggerimento della protezione lavorativa che, secondo i ricercatori, potrebbero aver contribuito ad esacerbare disuguaglianze reddituali e di benessere nella vita dei lavoratori italiani.

Fonte: askanews.it

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Coordinato dalla Sapienza e dall'IIT Neuroscience and Society

“Ho le farfalle nello stomaco” non è solo una metafora. Un nuovo studio interamente italiano pubblicato su iScience ha rilevato come la consapevolezza di avere un corpo e risiedere all’interno di esso, sia una sensazione fortemente correlata a parametri fisiologici del nostro corpo come temperatura, pressione arteriosa e acidità dello stomaco e dell’intestino. Lo studio è stato sviluppato nei laboratori del Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con il laboratorio Neuroscience and Society del centro dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Roma, CLN2S@Sapienza. La ricerca ha evidenziato che gli organi più profondi del nostro corpo, come quelli appartenenti al tratto gastro intestinale, sono gli unici in grado, attraverso segnali mandati ai nervi periferici, di captare sempre tutto ciò che ci circonda. “Il problema – afferma Salvatore Maria Aglioti, Professore alla Sapienza e Ricercatore Senior presso IIT – è che una cosa è studiare il ruolo dell’attività cardiaca o respiratoria nella consapevolezza corporea, come abbiamo fatto in precedenza, una cosa è studiare l’attività del tratto gastrointestinale. Stomaco e intestino sono organi profondi e contorti, che normalmente vengono indagati per mezzo di sonde molto invasive: chiunque abbia fatto una gastroscopia o una colonscopia lo sa per esperienza”. Per superare questo ostacolo, i ricercatori e le ricercatrici hanno esplorato il collegamento tra stomaco, intestino e percezione del proprio corpo per mezzo di una tecnologia altamente progredita e mai impiegata prima nel campo delle neuroscienze cognitive: le pillole furbe, dotate di un termometro, un manometro e un sensore di acidità miniaturizzati e ingerite come normali compresse. Attraverso questi dispositivi sono stati in grado di registrare a intervalli regolari, temperatura, pressione e acidità gastrointestinale. I dati una volta raccolti venivano trasmessi a una ricetrasmittente esterna, il tutto collegato senza fili. Per capire se veramente ci fosse una correlazione tra lo stato fisiologico dell’apparato gastrointestinale e la consapevolezza del proprio corpo, i partecipanti dovevano ingerire una di queste pillole intelligenti e mediante un visore 3D osservare un corpo virtuale. Questo avatar poteva presentarsi in due situazioni differenti: la prima in cui tale personaggio aveva un aspetto simile al paziente, si trovava nella sua stessa posizione e respirava come lui; la seconda situazione in cui il personaggio era differente dal partecipante. Alla fine di questa esperienza il paziente doveva descrivere quanto si sentiva “incorporato” al corpo virtuale appena mostrato. Tale procedura doveva essere ripetuta tre volte, a seconda della posizione della pillola furba: la prima in prossimità dello stomaco, la seconda dell’intestino tenue e l’ultima nell’intestino crasso.

Fonte: askanews.it

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Cure autoprescritte alimentano antibiotico resistenza. Rischio recidive

Fino al 40% delle donne italiane viene colpito almeno una volta nella vita da infezioni urinarie. E circa il 20% di loro racconta di aver avuto episodi che si sono ripetuti nel tempo. In quattro casi su cinque si tratta di cistite, un’infiammazione della vescica causata quasi sempre da batteri presenti nella flora intestinale che, per diversi motivi, possono arrivare a far danno nelle vie urinarie. La soluzione non sta, come troppo spesso si pensa, in cure antibiotiche fai-da-te perché rischiano di essere controproducenti, facendo aumentare la probabilità di sviluppare l’antibiotico-resistenza. È necessario rivolgersi all’esperto del settore, ovvero all’urologo: solo lui può indicare il percorso terapeutico più adatto a risolvere il problema, che spesso passa anche da piccoli interventi nello stile di vita. Delle ultime strategie per affrontare le infezioni urinarie hanno discusso in questi giorni gli esperti nazionali e internazionali al 95° Congresso nazionale della Società Italiana di Urologia (SIU), che si conclude oggi a Riccione. Quattro giorni con decine di simposi e sessioni, talk show e corsi di aggiornamento cui hanno partecipato quasi 2000 urologi provenienti da tutta Italia.

“I campanelli d’allarme con cui si presenta la cistite di solito sono sempre gli stessi: uno stimolo urgente e spesso doloroso a urinare, un forte bruciore durante la minzione, la sensazione di non riuscire mai a svuotare completamente la vescica. Le urine possono apparire torbide e maleodoranti, talvolta con tracce di sangue. Soprattutto si avverte un senso di pesantezza e fastidio nella parte bassa dell’addome – spiega Andrea Salonia, professore di Urologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e responsabile dell’Ufficio Educazionale della SIU.

Perché la cistite è una malattia soprattutto femminile? “Il primo motivo è di carattere anatomico: infatti, nelle donne l’uretra, cioè il canale che porta alla vescica, è più corta rispetto agli uomini e più facilmente transitabile da parte degli agenti microbici – continua il prof. Salonia -. La anatomia femminile nella zona genitale rende peraltro le vie urinarie e l’ultimo tratto dell’intestino molto vicini tra loro, e certamente più che negli uomini, rendendo più facile il compito ai batteri, che possono arrivare con facilità alla vescica. I fattori scatenanti sono vari. Per esempio i rapporti sessuali penetrativi, a seguito dei quali i batteri possono risalire lungo le vie urinarie. Oppure la stipsi e la sindrome del colon irritabile. In questi casi gli stessi batteri si moltiplicano e possono diffondersi dal distretto intestinale a quello delle vie urinarie. O ancora la menopausa, perché la carenza di estrogeni altera il pH della mucosa vaginale e favorisce le infezioni. Infine, un’igiene intima scorretta: oggi c’è una tendenza a esagerare con saponi troppo aggressivi, che indeboliscono le difese e rendono più probabili le infezioni vaginali”.

Le strategie per risolvere il problema passano anzitutto da un intervento sugli stili di vita. Una regola d’oro in caso di cistite episodica, che però vale anche come forma di prevenzione, è quella di bere tanto: “Almeno 8 bicchieri di acqua al giorno, per depurare l’organismo ed evitare l’accumulo di tossine e batteri responsabili dell’infiammazione. Per le stesse ragioni è molto importante cercare di non trattenersi, ma assecondare subito lo stimolo a urinare, perché il ristagno di urina nella vescica facilita la proliferazione di batteri. Urinare prima e dopo il rapporto sessuale. Usare detergenti intimi a pH neutro e non aggressivi. Per controllare la stipsi, potenziale alleata della cistite, può essere utile mangiare un paio di kiwi al giorno: regolano l’intestino e sono ricchi di vitamina C, che riduce la basicità dell’urina”.

Per quanto riguarda il grande capitolo delle terapie farmacologiche, gli esperti mettono in guardia contro un uso spregiudicato degli antibiotici: “Ricorrere a questi farmaci senza sentire prima l’urologo è rischioso, perché non fa altro che favorire l’antibiotico resistenza, cioè quel fenomeno per cui i batteri sviluppano una capacità di sopravvivere all’azione di uno o più farmaci di questo tipo. Ed espone al rischio di avere cistiti sempre più frequenti e molto spesso delle fastidiose candidosi vaginali- precisa il professore -. Per questo, qualora l’urinocoltura, cioè l’esame delle urine che identifica i batteri responsabili dell’infezione in corso, rivelasse una carica batterica bassa, sarebbe più opportuno intervenire assumendo probiotici, che contribuiscono a rendere più acide la superficie delle mucose genitali, inibendo l’azione dei batteri patogeni. Se invece la carica batterica fosse elevata, sarà l’urologo, sulla base dei risultati dell’urinocoltura e delle caratteristiche della paziente, a stabilire un’eventuale terapia antibiotica specifica”.

Fonte: askanews.it

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